Comunicazione inclusiva: come i brand costruiscono valore oltre le parole
In un’epoca in cui i brand non vendono più solo prodotti ma relazioni, valori ed esperienze, l’inclusione diventa un territorio imprescindibile. Non si tratta di “andare di moda”, né di assecondare la pressione sociale. Comunicare in modo inclusivo è oggi un dovere etico e una scelta strategica, che può rafforzare in modo significativo il posizionamento di marca.
Ma cosa significa davvero essere inclusivi nella comunicazione? Da dove si comincia? E come si fa a non scivolare nel “diversity washing”, ovvero nella narrazione artificiosa della diversità come espediente pubblicitario?
L’inclusione inizia dal linguaggio, ma non si esaurisce lì. Si estende al design, all’accessibilità, alla rappresentazione visiva, ai valori aziendali e persino alle policy interne. È una trasformazione che tocca l’intero ecosistema della comunicazione. E oggi più che mai, il pubblico è in grado di percepire la differenza tra chi comunica con autenticità e chi lo fa per convenienza.
Un processo culturale, non una scelta estetica
L’inclusione non è un evento, una campagna o un’iniziativa una tantum. È un processo continuo, che richiede consapevolezza, studio e, soprattutto, ascolto. Nella comunicazione, includere significa eliminare barriere – linguistiche, visive, cognitive – per permettere a tutte le persone di sentirsi viste, ascoltate e rappresentate.
Questo processo richiede un ribaltamento di paradigma. Fino a poco tempo fa, la comunicazione si rivolgeva a un “target medio” implicito: bianco, cisgender, abile, eterosessuale, appartenente alla cultura dominante. Oggi non possiamo più permetterci una visione così ristretta. Il pubblico è diversissimo, e la comunicazione deve riflettere questa complessità, evitando di appiattire le differenze o di ignorarle per “non creare problemi”.
Il linguaggio inclusivo: la prima forma di accoglienza
Le parole contano. Costruiscono immaginari, modelli culturali, dinamiche di potere. E possono escludere tanto quanto includere. Il linguaggio inclusivo nasce dalla consapevolezza che nessuna parola è neutra, e che ogni scelta comunicativa ha un impatto sociale.
Adottare un linguaggio inclusivo significa usare parole che non appiattiscono le identità, non rafforzano stereotipi, non marginalizzano chi si discosta da una presunta “norma”. Significa, ad esempio, evitare il maschile sovraesteso, riformulare le frasi per includere tutti i generi, fare attenzione ai ruoli che si associano a determinati termini.
Nel dibattito pubblico si è parlato molto dell’uso dello schwa (ə) o dell’asterisco per segnare il genere neutro. Al di là delle soluzioni formali, ciò che conta è l’approccio: non dare mai per scontata l’identità del proprio interlocutore e costruire un linguaggio accogliente, leggibile e rispettoso della pluralità.
Un caso significativo in questo ambito è L’Oréal, che ha deciso di rimuovere dai propri materiali e packaging termini potenzialmente discriminatori come “sbiancante” o “normalizzante” per riferirsi alla pelle. Un’azione concreta, apparentemente piccola, ma che ha un impatto simbolico enorme: rimuovere dal lessico di un brand globale ogni traccia linguistica di giudizio o esclusione è un passo verso una comunicazione più consapevole e inclusiva.
Accessibilità, design e digitale: comunicare per tuttə non è solo questione di parole
Se il linguaggio è il primo livello dell’inclusione, il design è il suo corrispettivo visivo e funzionale. Una comunicazione davvero inclusiva non può prescindere dalla accessibilità: non solo quella fisica, ma anche cognitiva e digitale.
Un sito che non può essere navigato da chi usa un lettore di schermo, un contenuto che non ha sottotitoli per chi non sente, un layout che usa colori indistinguibili per chi ha daltonismo: tutte queste sono forme di esclusione invisibili, ma reali. E spesso non intenzionali.
La buona notizia è che oggi esistono linee guida chiare, come le WCAG (Web Content Accessibility Guidelines), strumenti gratuiti per testare l’accessibilità (come WAVE o Lighthouse), e una crescente cultura del design inclusivo. Ma serve un cambio di prospettiva: progettare a partire dai margini, ovvero pensando prima a chi ha esigenze specifiche, invece che adattare in un secondo momento.
Un esempio virtuoso arriva dalla campagna Jeep “The Women Era”, lanciata in collaborazione con Amazon Ads. Questa iniziativa racconta storie di donne che hanno abbattuto barriere in ambito professionale e sociale, utilizzando un linguaggio visivo e narrativo curato, accessibile e rispettoso. È una campagna cross-canale‑ che ha dimostrato come l’inclusione possa essere anche una scelta di narrazione forte e strutturata, in grado di generare risultati concreti in termini di engagement e posizionamento.
Rappresentazione visiva: chi mettiamo nei nostri contenuti?
Uno dei terreni più delicati e strategici dell’inclusione è la rappresentazione visiva. Le immagini che scegliamo, i volti che mostriamo, i corpi che raccontiamo: tutto comunica. E tutto contribuisce a costruire un immaginario culturale.
Ancora oggi, molti contenuti pubblicitari mostrano un mondo idealizzato, omogeneo, normativo: corpi giovani, bianchi, magri, eterosessuali, abili. Ma il mondo reale è ben diverso. Ignorare questa pluralità significa tagliare fuori una parte enorme del proprio pubblico. E questo non è solo un errore valoriale: è anche un errore di marketing.
Una delle campagne italiane più interessanti in questo senso è “Home Pride Home” di IKEA, lanciata per la Giornata contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Con il claim “facciamo sì che le persone LGBT+ si sentano a casa”, IKEA ha usato il proprio core concept – la casa – come metafora potente di accoglienza. Una comunicazione coerente con i valori del brand e integrata nei suoi canali online e offline.
Un esempio recente e molto interessante è quello di Barilla, che nel 2023 ha scelto il Carbonara Day per lanciare il progetto Open Carbonara. In collaborazione con lo chef stellato Marco Martini e un team internazionale di cuochi specializzati in cucine diverse (vegana, halal, kosher, senza lattosio), Barilla ha reinterpretato uno dei piatti simbolo della tradizione italiana per renderlo fruibile al maggior numero possibile di persone. L’idea alla base è semplice ma potente: creare una ricetta che possa unire a tavola, indipendentemente da esigenze alimentari, scelte etiche o religiose. Una dimostrazione di come l’inclusione possa passare anche dal cibo e dalle abitudini quotidiane, rafforzando il messaggio che il brand porta avanti da anni: la pasta come simbolo di convivialità universale.
L’inclusione inizia dall’interno: autenticità e cultura aziendale
La coerenza è la chiave di ogni comunicazione efficace. E quando si parla di inclusione, questa regola vale ancora di più. Non si può comunicare all’esterno un’immagine di marca inclusiva se all’interno la cultura aziendale è chiusa, non paritaria o poco rappresentativa.
Molte aziende oggi stanno ripensando i propri processi, la propria leadership e le proprie policy in un’ottica inclusiva. Un esempio rilevante a livello globale è Microsoft, che da anni integra i principi di diversity e inclusion non solo nella comunicazione, ma in ogni ambito dell'organizzazione. Dalle modalità di selezione del personale, alla progettazione di prodotti accessibili (come la linea Xbox Adaptive Controller), fino alle linee guida editoriali interne, l’inclusione è parte integrante della strategia aziendale.
L’azienda ha sviluppato internamente un Inclusive Design Toolkit, usato anche da altri professionisti e designer in tutto il mondo, come guida concreta per costruire esperienze pensate davvero per tuttə. Questo dimostra che l’inclusione può diventare una competenza trasversale, e non un comparto a sé, con ricadute positive sulla comunicazione, sull’engagement interno e sulla reputazione esterna.
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